ChatGPT, GPT 3, Dall-E e OpenAI sono nomi sulla bocca di tutti, ma sappiamo veramente a cosa si riferiscono? Nel Sunday View di questa settimana andiamo alla scoperta del mirabolante mondo dell’intelligenza artificiale
di Lorenzo Cleopazzo
C’era una volta, in un reame lontano, un inventore che creò una macchina capace di scoprire se una qualsiasi frase fosse vera o falsa. Il sovrano di quel Paese ne fu molto turbato, per questo promise montagne d’oro a chiunque riuscisse a screditare il marchingegno. Al portone del castello si formò una gran fila di aspiranti miliardari, ma chiunque sfidasse quella diavoleria con una frase qualsiasi se ne tornava a casa a mani vuote. Finché un bel giorno si fece avanti una dolce bambina che, sorridendo alla macchina, disse con tono allegro e spensierato: “Questa frase è falsa”.
Risultato? Error 404 e tanti cari saluti.
Uomo 1, macchine 0. Palla al centro.
Questa è solo una semplice storia, ma la partita che stiamo giocando oggi sul campo dell’intelligenza artificiale è ben più importante. Perché è vero che non dobbiamo aspettarci robot indistruttibili alla Terminator da qui a due anni, però è importante conoscere ciò con cui abbiamo a che fare.
Siete d’accordo? E allora andiamo.
LO STATO DELL’ARTE
Era il luglio del 1956 quando un gruppo di cervelloni si ritrova al college di Dartmouth per una conferenza, che passerà alla storia come la scintilla che diede il via allo studio dell’Intelligenza Artificiale in quanto tale. Tutto parte da un’idea semplice: riprodurre le capacità di una mente biologica attraverso la tecnologia di un computer
Passano gli anni e nel settembre 2015 un altro gruppo di cervelloni lancia OpenAi, uno dei progetti più importanti nel mondo delle intelligenze artificiali. Nomi come Elon Musk, Amazon e Microsoft -quest’ultima stando alle molte indiscrezioni, pronta a investire ancora di più nella società – si uniscono attorno al proposito di sfruttare i vantaggi dell’IA a favore dell’uomo. Risultato? Dal loro rilascio, giocattoli come ChatGPT, Dall-E e compagnia cantante, iniziano a spopolare sul web per via della loro – apparentemente – illimitata capacità di creare immagini, testi e melodie da semplici input. E non solo: da qualche giorno Microsoft ha presentato anche Vall-E, in grado di replicare la nostra voce con soli 3 secondi di audio, e si dice voglia implementare ChatGPT sul proprio motore di ricerca Bing e su tutto il pacchetto Office.
Le piattaforme sono per ora gratuite e le persone si divertono a sperimentarne le potenzialità, non senza un certo briciolo di preoccupazione. Ai dubbi sul futuro, però, si aggiunge una certezza: le IA sono plasmate su noi stessi.
HUMAN LEARNING
Nessuno nasce imparato, tantomeno un computer. Questo lo direbbero in molti, tra cui anche John Locke.
Per il nostro filosofone inglese del ‘600 la mente umana, prima di apprendere qualsivoglia nozione, è una tabula rasa: completamente vuota e spoglia, pronta ad accogliere ogni possibile informazione come una spugna l’acqua. A mano a mano che inanelliamo esperienze si formano delle idee semplici come colori, forme e suoni che unite tra loro danno vita a idee più complesse – per fare un esempio: la prima volta che mangiamo una mela cogliamo il rosso, la rotondità e il suo sapore dolce; solo dopo averne mangiate un po’ mettiamo assieme il tutto e si origina l’idea complessa di mela.
La cosa forte del pensiero di Locke è che l’uomo non è passivo in tutto questo processo. La nostra mente si diverte un mondo a scuotere e sprimacciare tutte queste idee fino a quando non ne vengono fuori concetti sempre più articolati. E potenzialmente, grazie alla ragione, possiamo persino giungere all’idea di Dio. Uomo 2, macchine 0.
Tutto ciò che ha detto il buon Locke, può essere ben applicato al mondo delle IA: il processo di raccolta ed elaborazione continua degli input che dà origine alle idee semplici e a quelle complesse, non è altro che una visione più filosofica del cosiddetto Machine Learning, che per l’appunto non è nulla di più che inserire esempi e stimoli in una macchina affinché impari da essi. Una volta raccolte le informazioni attraverso questo primo processo, sia l’uomo che l’IA vanno a fondo dei concetti e cominciano a ragionarci su, fino a che non giungono a nozioni completamente nuove. Questo è il Deep Learning, ma per ora non è una realtà diffusa e connaturata nelle IA come invece sono le riflessioni nell’uomo.
PRIMO TEMPO
La Treccani indica l’intelligenza come un “complesso di facoltà che consentono di pensare, comprendere e spiegare fatti o azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, e adattarsi all’ambiente”.
Vien da sé che quelle che attualmente invadono il web non sono delle vere e proprie intelligenze. Si tratta piuttosto di piattaforme generative, basate sulla capacità di incasellare nel modo corretto tutte le nozioni ottenute. Certo è strabiliante, ma non stiamo ancora parlando di una fantomatica superintelligenza che ci spodesterà dal centro del Creato.
Basta grattare un po’ via la patina superficiale e la differenza tra noi e ‘loro’ è evidente.
Noi umani siamo nati con l’irresistibile indole a creare pensieri astratti, solo dopo abbiamo iniziato a studiare e capire il mondo traducendolo in numeri. Le macchine invece stanno facendo il percorso opposto, o meglio: noi glielo stiamo facendo fare. Una cosiddetta IA non può che avere origine da un apparato matematico, da un algoritmo che la specializza in una cosa o nell’altra, e noi stiamo solo tentando di darle un pensiero astratto, ma quello che vediamo oggi con le piattaforme di OpenAi è solo una parvenza.
Uomo 3, macchine 0.
Tutto è bene quel che finisce bene? In realtà non è finito un bel niente. Perché se è vero che la partita tra uomo e macchine ci vede in vantaggio, basta un contropiede per riaprire il match. Per ora ce la stiamo giocando bene, ma la partita finisce quando l’arbitro fischia.
BONUS TRACK
Inutile dirci quanto le IA possano aiutarci oggi e nel futuro. Di certo si prefigura come un trend dalle enormi potenzialità, capace di migliorare la vita umana sotto diversi aspetti.
Ritornando però alla definizione della Treccani di ‘intelligenza’, in realtà l’enciclopedia parlava di un complesso di facoltà “psichiche e mentali”, di certo non alla portata di una macchina. Spero ci perdonerete l’omissione nell’ultimo paragrafo, ma sarebbe stato fin troppo facile così.